Le ultime ricerche scientifiche in materia di suono hanno evidenziato che l’uomo, rispetto agli altri esseri viventi, ha sviluppato la capacità unica di percepire la musica.
Questo articolo pubblicato sulla rivista Mind di Settembre spiega come si è arrivati a questa interessante conclusione.
Sembra davvero che la capacità di percepire nel dettaglio le altezze dei suoni sia una prerogativa del tutto umana e ciò potrebbe spiegare perché la musica, e soprattutto il linguaggio, siano probabilmente la caratteristica che più ci contraddistingue dalle altre specie.
Partendo da un precedente studio riguardante le poche differenze riscontrrate tra uomini e macachi nei processi neurali delle funzioni visive, due scienziati (dei National Institutes of Health e della Columbia University), quasi per scommessa, hanno scelto di indagare se ciò fosse vero anche per il sistema uditivo. E i risultati sono stati una sorpresa. Infatti, le analisi con risonanza magnetica funzionale (fMRI)delle attività cerebrali hanno evidenziato che la corteccia uditiva dell’uomo elabora i suoni in modo molto più articolato di quella dei macachi, soprattutto quando vengono aggiunte strutture tonali complesse e suoni armonici.
Ulteriori esperimenti hanno confermato questi risultati: un leggero aumento del volume dei suoni tonali ha avuto scarso effetto sulla reazione osservata nel cervello delle scimmie.
Gli scienziati, pertanto, ritengono che le scimmie percepiscano un suono specifico in modo differente dal nostro e che, quindi, proprio questa caratteristica abbia contribuito a plasmare nel tempo l’organizzazione del nostro cervello in modo univoco in natura.
Dunque, poiché la ricerca ha mostrato che la grande differenza riscontrata nella corteccia uditiva delle due specie non è invece evidente nella corteccia visiva, significa che per l’uomo e per il macaco la visione del mondo è quasi sicuramente la stessa, ma non la sua musica e la sua armonia.
La scoperta fornisce anche una spiegazione al perché gli esperimenti uditivi condotti sulle scimmie siano sempre stati molto più difficili da eseguire rispetto a quelli visivi.
Allo studio, pubblicato su “Nature Neuroscience”, hanno partecipato anche il MIT e la Harvard University di Cambridge e l’ École Normale Supèrieure di Parigi.
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